Titolo: Fortuna, il buco delle vite
Autrice: Jolanda Buccella
Editore: Ciesse
Collana: green
Pag. 592
Prezzo: 22 euro
Descrizione:
Fortuna è una donna dal passato difficile, anzi dai
passati difficili, perché a differenza degli altri si può affermare con
certezza che lei abbia vissuto tre vite completamente diverse l’una dalle
altre. La sua prima vita iniziò un lontano giugno degli anni 50’ in uno
sperduto paesino del profondo sud dell’Italia. Allora si chiamava J. Rizzutelli
aveva i capelli rossi come l’inferno e un bel buco sulla schiena che la sua
famiglia, per ignoranza, aveva soprannominato il buco della vita. Sin dai suoi
primi mesi di vita la piccola J. fu costretta a combattere contro i pregiudizi
della gente che la considerava una creatura figlia del diavolo e l’ostilità di
sua madre Anita, una bellissima ex ballerina che non riusciva ad accettare
l’idea che il suo corpo dalle linee perfette avesse partorito una figlia
storpia. L’infanzia della bambina sarebbe stata un calvario se al suo fianco
non avesse avuto Umberta Prima Rizzutelli, l’amatissima nonna paterna, una
donna vivace e spregiudicata che le faceva vedere il mondo alla sua portata e
la incoraggiava a sfidare i suoi limiti fisici. Gli anni felici passarono
velocemente e all’improvviso la signora Rizzutelli fu colpita da un male
sconosciuto che in pochi mesi la condusse alla morte. La scomparsa della nonna
fece crollare il mondo di certezze della piccola J. che si rivelò un essere
completamente fragile e indifeso, al cospetto di un mondo che vedeva soltanto
la sua diversità. La ragazzina trascorse tutta l’adolescenza facendosi del male
prima con dei digiuni spietati e poi con delle abbuffate senza controllo.
Soltanto la fine delle scuole superiori e il desiderio di frequentare
l’Università per diventare giornalista, le diedero la forza per dare un po’ di
tregua al suo corpo sempre più provato. Ma il destino continuò ad accanirsi in
modo spietato con lei, dopo aver superato brillantemente venti esami alla
facoltà di Scienze Politiche la sua carriera universitaria s’interruppe
bruscamente. La delusione fu talmente forte che da quel momento in poi J.
decise di chiudersi per sempre in casa. Ormai era completamente rassegnata
quando, un giorno, la telefonata di una persona che era stata molto importante
nella sua prima infanzia, la spinse a reagire e a mettere fine alla sua
reclusione. Doveva dare un taglio netto col passato perciò decise di fuggire di
casa, mettendo così fine alla sua prima vita. Arrivò a Roma dopo un lungo
viaggio in treno, felice e completamente sicura che nella Capitale avrebbe finalmente
trovato quel briciolo di felicità che le spettava di diritto. Affittò una
graziosa cameretta in una pensione e cominciò subito a cercare un lavoro,
trascorse giornate intere su e giù per le strade della città per presentarsi
puntuale ai colloqui che fissava tramite telefono, ma a qualcuno bastava
semplicemente vederla muoversi per sbatterle la porta in faccia. Dopo qualche
giorno i pochi risparmi che aveva finirono, così fu costretta a lasciare la
pensione e a trascorrere la sua prima notte per strada. Su una panchina poco
lontano dalla stazione Termini, incontrò un vecchio barbone muto che le offrì
il suo cappotto per proteggersi dal freddo della notte e la mattina dopo lo
ritrovò ancora accanto a sé. L’uomo, che probabilmente aveva intuito la sua situazione
disperata, la pregò di seguirlo e così la portò a “casa sua” un vecchio
edificio abbandonato su una delle tante rive del fiume Tevere. Il vecchio
edificio era abitato da un gruppo di barboni che all’inizio non accettò di buon
grado la sua presenza. Erano tutti ostili nei suoi confronti e le facevano dei
dispetti che avrebbero fatto perdere la pazienza a chiunque, ma J. cercò di
essere forte e sopportare tutto, perché non aveva altra scelta se non quella di
trascorrere un lungo e freddo inverno, gettata per strada come tanti altri
poveri disgraziati. La tenacia della donna alla fine fu premiata, i barboni
cominciarono ad avere fiducia in lei e a considerarla parte della loro
famiglia, soprannominandola Piccoletta perché era la più giovane del gruppo. La
vita da barbona era dura e spietata, era una vita che non lasciava scampo e che
faceva perdere il senso di tutto, di se stessi, del mondo intorno e soprattutto
del tempo che trascorreva. A un certo
punto Piccoletta cominciò a non ricordare più quanto tempo fosse passato, da
quando si chiamava ancora J. e faceva parte della civiltà. Quanti inverni aveva
trascorso lottando tenacemente contro il freddo e la fame? Quanti Natali non
aveva più festeggiato? Era di nuovo la vigilia di Natale, l’ennesima in quel posto
dimenticato da Dio e dagli uomini. Una vigilia della quale Piccoletta avrebbe
portato per sempre segni indelebili nel corpo e nell’anima, perché proprio
quella notte il suo protettore si trasformò nel suo peggior carnefice, abusando
senza alcun ritegno di lei. Fu un colpo straziante per la donna perché sin dal
primo momento che lo aveva visto, si era sempre fidata ciecamente di Benny, lo
aveva considerato come quel padre dolce e premuroso che la piccola J. non aveva
mai avuto. Era triste, delusa, mortificata e l’unica via d’uscita a tutto quel
male sembrava essere soltanto la morte. Provò diverse volte a lasciarsi
trasportare dalle acque torbide del fiume, ma il suo istinto di sopravvivenza
la fermò sempre in tempo. Probabilmente non era ancora tutto finito… Infatti
una domenica mattina, accompagnando la sua amica zingara Juana in giro per le
strade di Roma, incontrò un uomo di colore vestito in modo eccentrico che la
salvò da una brutta caduta sui sanpietrini di Piazza San Pietro. Piccoletta
rimase profondamente turbata dallo sguardo profondo dello sconosciuto e quando
poi se ne andò, scomparendo tra la folla di pellegrini che aveva appena
assistito all’Angelus del Papa, provò uno strano dispiacere al pensiero che non
lo avrebbe rivisto mai più. Ma nella vita non bisogna mai dare niente per
scontato. Così il caso volle che, una volta la donna capitasse proprio nella
strada in cui un caro amico dell’affascinante sconosciuto aveva un ristorante.
All’inizio fu piuttosto sgarbata nei suoi confronti, ma quando l’uomo la invitò
a bere qualcosa di caldo, lei accettò di buon grado. Da quel momento in poi tra
Nadir e Piccoletta cominciò a nascere un’amicizia sempre più profonda, anche se
entrambi non trovavano mai la forza per raccontarsi dei loro rispettivi dolorosi
passati. Piccoletta non riusciva a parlare del rapporto difficile con sua
madre, di come era arrivata a ridursi a fare la barbona e tanto meno della
violenza di Benny, Nadir invece non riusciva a raccontarle del Ruanda, del
genocidio dei tutsi e di tutti gli anni che aveva trascorso in carcere con
l’accusa di essere un oppositore del regime del presidente Habyarimana.
Soltanto quando i due troveranno il coraggio per aprirsi completamente, il loro
rapporto subirà un’evoluzione radicale. Piccoletta avrà la possibilità di
rinascere ancora una volta e di chiamarsi Fortuna e Nadir finalmente riscoprirà
il piacere di avere qualcuno accanto a sè ma la felicità della giovane coppia
ha i giorni contati, presto sarà sconvolta dal trasferimento in Ruanda a pochi giorni
dall'inizio del genocidio dei tutsi del 1994.
L'autrice:
Jolanda
Buccella nasce a Oliveto Citra (SA) il 28 giugno del 1980 dopo aver frequentato
il liceo linguistico di Campagna (SA) scopre la sua passione per la scrittura e
la pittura. Attualmente vive a Milano per motivi di lavoro, ha una famiglia
numerosa che adora ma lei è single per scelta degli altri, è un’accanita
lettrice di romanzi latino americani, dipinge quadri astratti per sfogare tutte
le sue emozioni negative e nel tempo libero segue con particolare interesse il
calcio essendo una tifosa sfegatata del Milan. Fortuna, il buco delle vite
edito da Ciesse edizioni è il suo primo romanzo, con il quale spera di regalare
ai lettori una parte delle emozioni che ha ricevuto lei scrivendolo.
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