sabato 22 febbraio 2014

Recensione: Concerto per mio padre

Titolo: Concerto per mio padre
Autrice: Jasmine Ghata
Traduzione di Angelo Molica Franco
Editore: Del Vecchio
Collana: formelunghe
Pagine: 128
Prezzo: 13 euro

Descrizione:
“Alla morte di Barbe Blanche, mio padre, ricevetti in eredità il târ che si tra- smette nella mia famiglia di generazione in generazione. Ma immediatamente lo strumento mi si ribellò contro, rifiutandosi di librare quegli accordi incantevoli e mistici che hanno fatto la gloria dei musicisti dell’Iran. Sotto le mie dita, e al mio carezzare le corde, sembrava solo un pezzo di legno senza vita, senza vigore. Ero forse maledetto? Che crimine dovevo espiare? O forse il târ custodiva dentro quei sinuosi fianchi di legno un segreto troppo pesante per poter vibrare come un tempo, leggero e suadente? Così ho strappato le corde, le ho bruciate e seppellite dietro casa. E sono partito alla volta di Arda- bil, in cerca del più famoso liutaio della regione. Ma cambiare le corde di un târ equivale a cambiare la sua stessa anima e quella del musicista che lo possiede. E adesso che sono qui, rinchiuso con mio fratello Nur in questa cella di polvere e silenzio a scontare una condanna inclemente e sconosciuta, adesso che la vista mi sta abbandonando e che non riesco più a distinguere il giorno dalla notte, adesso che questo buio diventa sempre più mio senza voce e senza sguardi, ho paura. Ho paura di non tornare mai più.” Lentamente, con delicatezza e con la sapienza di un cesellatore esperto, Yasmine Ghata ci racconta una storia lontana, incorniciando ogni figura di arabeschi che si intrecciano alle note di un târ. Pian piano, si forma davanti ai nostri occhi la nitida immagine di un tempo indefinito, eterno perché universale. 

L'autrice:
Yasmine Ghata, figlia della poetessa di origine libanese Vénus Khoury Ghata, è nata in Francia nel 1975. Ha studiato alla Sorbona e all’École du Louvre, specializzandosi in arte islamica. Nel 2005 ha pubblicato in Italia per Feltrinelli il suo primo romanzo, La notte dei calligrafi, vincitore nel 2007 del Premio Autore Esordiente alla XXVI edizione del PREMIO GRINZANE-CAVOUR. Sempre con Del Vecchio editore è uscito in Italia La bambina che imparò a non parlare. Se qualcuno avesse detto alla piccola Yasmine che sarebbe diventata una grande scrittrice, pluripremiata e tradotta in tutto il mondo, lei di sicuro non ci avrebbe creduto. Nell’intenso La bambina che imparò a non parlare ha spiegato ai suoi lettori come per anni abbia odiato la scrittura pro- prio perché figlia di una grande poetessa: Vénus Khoury–Ghata. E di come a sei anni, in virtù di questa idiosincrasia, abbia distrutto la macchina da scrivere della madre, dopo averla spiata pomeriggi interi dietro libri aperti che faceva finta di leggere. Sarà l’incontro fortuito a venticinque anni, nell’ala Richelieu del Louvre, con un’iscrizione realizzata dalla nonna – la celebre miniaturista Rikkat Kunt – a farle comprendere che per conoscere la sua storia doveva scriverla. Yasmine Ghata inizierà e continuerà a scrivere per ascoltare da vicino la voce del mondo che le sfugge.

La mia recensione:

Solo il figlio maggiore di un suonatore di târ può strappare lo strumento al lutto. È una regola immutabile da generazioni in Iran, una legge non scritta che i due figli di Barbe Blanche conoscono bene. Così quando l’anziano suonatore muore, lasciando che il tremito delle corde catturi gli ultimi palpiti del suo cuore, Hossein non ha dubbi: toccherà a lui l’eredità del padre in quanto primogenito. Nur non ha nulla da obiettare, conosce la tradizione e sin da piccolo ha vissuto all’ombra del fratello più grande, è indiscutibile che il prezioso lascito sia per lui.
Il târ, invece, sembra non essere d’accordo. Come fosse dotato di vita e volontà proprie, nel momento in cui Hossein lo impugna, si ribella. Nonostante il ragazzo abbia studiato musica potendo contare su un ottimo maestro, le corde non rispondono al suo tocco nella maniera sperata. Emettono rumori sgraziati, quasi che soffrissero al contatto con le sue mani, tanto che il giovane, sentendosi oltraggiato, le recide in un impeto d’ira.
A quel punto il mistero si infittisce perché lo strumento, lungi dal tacere, comincia a suonare da solo mentre la casa in cui Barbe Blanche ha vissuto seguita a manifestare segni  della sua presenza. È come se lo spirito dell’uomo fosse inquieto e non riuscisse a trovare pace nel sonno eterno, quasi che avesse un conto in sospeso da chiudere al fine di poter passare oltre.
Hossein e Nur decideranno allora di partire per sottoporre il târ all’esame di un esperto liutaio. Forse farlo riparare sarà il primo passo per ristabilire l’equilibrio.
Parallelamente si snoderà anche la storia di Parvis, a sua volta figlio di un suonatore di târ: il cieco Mohsen, morto assassinato. Anch’egli è impegnato nella ricerca di una verità poiché è determinato a scoprire e punire chi ha ucciso suo padre.
I sentieri su cui si muovono i tre ragazzi, finiranno per intrecciarsi confluendo in unico viaggio.
La storia che ne scaturisce danza in bilico tra la favola e il giallo tenendoci stretti nella sua rete fitta di enigmi e magia.
È musica che si trasforma in prosa l’originalissimo romanzo di Jasmine Ghata. A caratterizzare la sua scrittura è uno stile elegante, armonico che risuona nella mente e regala forti suggestioni. Atmosfere surreali, avventurose, a tratti intimiste si alternano e si fondono generando una sorta di incantesimo che avvince dalla prima all’ultima pagina.
Particolarmente suggestivo è il significato di cui si carica il târ, la sua valenza simbolica e la vitalità che lo caratterizza. Esso non è un semplice strumento nelle mani dell’uomo, ma un veicolo in grado di custodire l’anima di chi lo possiede, o lo ha posseduto. Non è solo la sua fattura e nemmeno l’abilità tecnica di chi lo maneggia a determinare la qualità del suo suono, ma anche e soprattutto l’interiorità di chi sollecita le sue corde, quasi che a sprigionarsi da esse fosse una sorta di musica interiore, in grado di rivelare ciò che si annida nel profondo del cuore.
Il racconto è corale e ci fornisce diversi punti di vista. Capitolo dopo capitolo si alternano le voci di Hossein, Nur, Parvis e di Forough, sposa di Barbe Blanche. Ciascuno racconta la sua parte della storia in prima persona contribuendo, non solo a svelare il mistero, ma a tratteggiare il ritratto complesso di due uomini vissuti in simbiosi con il loro strumento musicale.
L’immagine di Barbe Blanche, uomo  accecato dall’ambizione e dal suo legame morboso con il târ, si contrappone a quella di Mohsen, il rivale di una vita osannato dal popolo perché ritenuto capace di dialogare direttamente con dio attraverso la sua musica.
Contemporaneamente si delineano i ritratti dei figli e della moglie di Barbe Blache ed emerge la griglia dei rapporti familiari. Per loro bocca, l’autrice ci racconta dunque anche la complessità e la conflittualità dei sentimenti, ci parla di amore e di solitudine, di ambizione e tradimento; lo fa lasciando correre la penna su ali leggere, colorate di fiaba e spiegate  in un tempo indefinito, consegnandoci così un’opera senza età, che si legge in un batter di ciglia ma capace di riecheggiare a lungo nella mente al pari di una bellissima melodia. 














2 commenti:

  1. Libro particolare...
    Qui un premio per te
    http://madeforbooks.blogspot.it/2014/02/liebster-award-ovvero-questo-blog-non-e.html

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